mercoledì 27 ottobre 2010

I Prigionieri

Su gentile richiesta di un nostro giovane amico e grazie all'autorizzazione dell'autore e della Redazione del sito Toronews pubblichiamo un articolo che potrebbe essere la fotografia di quella che è l'attuale realtà granata.
Un invito a riflettere da parte di una penna autorevole dell'immenso mondo giornalistico granata.
Ricordiamo che l'articolo è stato pubblicato in data 16 gennaio 2009.

La goccia che spacca la roccia.

Ho fatto un sogno.

Un incubo, a dire la verità.
Non è la prima volta. Non riesco mai a vederne la conclusione, mi sveglio sempre angosciato nel cuore della notte, prima di arrivare alla fine.
- Che hai, non dormi?
- No… non sto un gran ché bene…
- Non sarà mica per il Toro, vero?
- …ma figurati, ho quarant’anni, non quindici.
Già.
Palle palle, palle rosse e gialle.
Non so come, ma il Toro c’entra, in qualche modo c’entra eccome.
Mi aggiro lungo i corridoi bui e sfocati di un seminterrato.
“Ci misero uno stadio contro”… chi ha detto questa frase? Quando l’ho sentita?
Tutto è confuso nella mente, persona ggi, situazioni e date si mischiano e sovrappongono.
C’è tanta confusione in questo corridoio che fa paura.
Alla destra e alla sinistra si aprono numerose porte che sembrano quelle di tante celle.
Al termine del corridoio, se ne apre un altro, sulla destra.
Non voglio andarci, non voglio proseguire, non voglio!
I piedi non si muovono ma avanzo lo stesso.
Sto strisciando, qualcuno mi sta spingendo.
Mi sveglio così, di soprassalto.

Premetto che sono stato fatto fesso più volte.
Ognuno di noi è pieno di scheletri negli armadi, chi più, chi meno, è inutile ricercare un ideale di perfezione che non esiste. Beati i perfetti, io non lo sono.
Qualche scheletro è talmente scomodo da essere rinchiuso in un armadio nascosto, del quale si è gettata via volontariamente la chiave.
Ero contro Vidul ich e soci, fortemente.
Allora proprio non immaginavo che ci potesse essere qualcuno che muoveva le fila di altri interessi e che sfruttasse la mia rabbia e quella altrui.
E’ dura scoprire che pensi di ragionare con la tua testa, e poi guardi dietro le tue spalle e non vedi i fili che muovono le tue braccia e quelli invisibili che ti fanno credere che i tuoi pensieri siano giusti.
Quando lo capisci, le tue braccia si sono già mosse e hanno risposto al cervello.
Così ne sono conseguite delle azioni.
Troppo tardi, troppo tardi.

La storia dei Prigionieri… mica facile parlarne.
Forse per parlare di come nacquero, bisognerebbe non partire da Vidulich, ma tornare ancora più indietro nel tempo, ai convulsi giorni del 1994, quando il Toro va davvero vicino al fallimento.
Sono passati i giorni della gestione Borsano e di Governi.
Il bilancio societario è allo sfascio.
Primavera 1994, la storia del Toro viene scritta in quei giorni, anche se, per capire veramente, bisognerebbe tornare ancora indietro, a chi demolì le basi del solido Toro anni ’80 e lasciò via libera a gestioni societarie nefaste.
Ma questa non è la storia del gambero, anche se le tessere del puzzle sono indissolubilmente legate, come tanti pezzi che si incastrano uno all’altro e che conducono a una cella umida e maleodorante.
Scegliamo un punto di partenza, e che sia quello.
Nei primi mesi del 1994, il Torino di Mondonico, di Benito Carbone e Francescoli, è ben piazzato in classifica, ha la strada spianata in Coppa Italia verso la finale, ed è arrivato nei quarti di finale di Coppa delle Coppe.
Ma la crisi societaria è alle porte. Da mesi ormai vengono sollevati dubbi sulla gestione del Notaio Goveani.
I l ibri contabili del Toro finiscono sotto sequestro. Nessuno sa quanto sia profonda la voragine di debiti che inghiotte la società.
Si comincia a salvare un “salvatore”, atteso come il Messia, nonostante Goveani sia ancora al timone della società.
Che diamine, il Toro non può mica fallire!
Si parla da tempo unicamente di Calleri, che ha già risanato la Lazio in passato.
Improvvisamente si accende una luce in fondo a un tunnel disperato che i tifosi del Toro non hanno ancora conosciuto, si profila un possibile Salvatore, ma con la “S” maiuscola.
In pochi lo conoscono.
E’ il miliardario, residente a Monaco, Giribaldi, che i giornali definiscono “ricchissimo”, oltre che gran collezionista di orologi (!)
I soldi sembra però averli sul serio e non sembra spaventato dalla montagna di debiti accumulati dai predecessori. “ Si firma un bell’assegno per i debiti e poi non se ne parla più”, titolano i giornali.
I tifosi sognano.
Invitano, peraltro gentilmente, Goveani ad andarsene.
Si parla anche di operazione congiunta Giribaldi – Calleri e nell’affare sembra entrare anche Sergio Rossi, come conoscitore dell’ambiente e come consigliere dei due, anche se Calleri non sembra apprezzarlo particolarmente.
Ma la trattativa è strana, sorgono ogni giorno nuove complicazioni che gettano acqua sull’entusiasmo dei tifosi. Le cose sono nebulose già in partenza, e non si sa quali interessi siano in ballo. Si attende invano, ma strane ombre si agitano.
Improvvisamente, nelle ore che precedono Torino-Arsenal, quarti di finale di andata di Coppa delle Coppe, Giribaldi si ritira dalla trattativa.
Si vocifererà che gli sia stato “consigliato ” di farsi da parte, come ad altri prima di lui.
Voce del verbo vociferare.
Questa affermazione ovviamente è senza fonte, come tante di quelle che gravitano spesso attorno al Toro, ma che hanno la strana particolarità di essere spesso credibili e di fornire chiavi di lettura lucide, in scenari altrimenti coperti dalla terra che vi è stata gettata sopra a bella posta.

Dicevamo, il Torino, nonostante perda i pezzi migliori da oltre due anni, ha scenari aperti in tutte e tre le competizioni.
Dopo il ripiegamento di Giribaldi, la squadra però crolla. In maniera anche strana e inspiegabile.
La semifinale di Coppa Italia è persa contro l’Ancona, che milita in serie B (0-1 al Conero, 0-0 in casa) e che sarà schiacciata dalla Sampdoria in finale. L’Arsenal, apparso quadrato, ma non irresistibile, non viene aggredito e allo 0-0 in casa, fa seguito lo 0-1 di Londra, graz ie a un gol di Tony Adams a un quarto d’ora dalla fine.
Sarà la nostra ultima partita internazionale, Intertoto a parte.
In campionato, a Coppa UEFA ormai praticamente raggiunta, il Toro si fa infilare quattro volte dal Foggia in casa, prima di capitolare anche a Roma.
Fuori dai giochi.
Calleri, da solo, rileva il Toro e lo salva dal fallimento, ma da quel momento, con la motivazione del risanamento, il Toro come lo intendiamo noi tifosi, smette di esistere.
Il primo a farne le spese sarà il Filadelfia, che verrà chiuso.
Poi il parco giocatori.
Il vero vivaio muore in quei giorni.
Sono gli anni dello scambio Vieri-Petrachi.
Fateci caso, c’è sempre qualche battitore di grancassa in queste situazioni, pronto a dire che si tratta di un affare.

E’ il campionato 1994-1995, dunque, quando tutta la squadra viene stravolta, anche se il merca to (Vieri-Petrachi a parte) viene condotto con una certa intelligenza.
Il Toro è giovane, spregiudicato. Vincerà entrambi i derby della stagione grazie ai gol di Rizzitelli, che sfodera un’annata eccezionale.
Seguiamo passo passo la nostra storia e i fili che si legano.
Come capita spesso noi tifosi focalizziamo la nostra attenzione sulla squadra, sulla palla che rotola, sui dettagli del match o di un gol.
Spesso però il nostro punto di vista è troppo ristretto, troppo focalizzato sul dettaglio.
Proviamo a zoomare al contrario
Ad esempio, i gobbi cominciano a comportarsi in maniera strana.
Come? Prima di tutto con una rivoluzione al loro interno.
Boniperti viene messo da parte ed emerge la posizione di Bettega all’interno della società.
La battaglia non è in cruenta, si verifica anche un curioso scontro tra la loro curva Sud, s chierata con Bettega, e la Nord pro Boniperti.
E poi?
E poi alle volte non giocano più a Torino.
Tra le altre, giocano la finale di ritorno di Coppa Uefa (perdendola), col Parma a San Siro, pochi giorni prima di vincere il loro scudetto (dopo anni di astinenza) sempre col Parma, ma questa volta a Torino.
Il motivo? Il problema è lo stadio Delle Alpi, che è un problema, sin dall’inizio.

In pochi avrebbero immaginato che la decisione di costruire uno stadio nuovo alla fine degli anni ’80 si sarebbe rivelata così nefasta.
Peggio che nefasta.
Terribile, una decisione che scandisce la nostra vita sportiva ancora oggi.
Una decisione voluta da nessuno, tranne chi aveva tutti gli interessi a rovesciare quintalate di cemento, possibilmente guadagnandoci il più possibile.
Cemento, quante volte questa parola tornerà ancora in questa storia.
Inutile, certo, ovvio dall’inizio, anche agli occhi ingenui di un ragazzo.
Non c’è modo migliore di far girare l’economia se non quello di far girare i soldi con fior di finanziamenti per mezzo di avvenimenti epocali, camuffati da happening sportivi o meno.
Con la promessa che saremo in tanti a guadagnarci, ovvio. “I benefici ricadranno a pioggia su tutti”.
Segnatevi questa frase perché molte volte la pioggia è diventata grandine, caduta sulla zucca di chi aspettava a mani aperte.
Italia ’90 era alle porte e se si provava dire che l’idea dello stadio della Continassa era una boiata, si passava per antieuropeisti.
Scherziamo? Torino aveva bisogno di uno stadio europeo!
Ma che dico, “europeo”! “Mondiale”!
Ci voleva uno stadio “mondiale”.
E lo fecero. Brutto e angosciante come pochi.
I l progetto originale prevedeva addirittura la curva divisa in due.
Poi parzialmente realizzato.
Alla fine ce la fanno sempre.

Sorpresa però. La chiave di volta della nostra storia forse non è ancora questa decisione assai peggio che infelice. A vincere l’appalto non fu una società appartenente al capitale torinese, ma l’Acqua Marcia di Roma. Particolare da non sottovalutare e da ricordare e che meriterebbe un capitolo a parte.
I costi lievitarono in maniera astronomica, in molti ricorderanno quell’episodio.
Torniamo ai giorni del 1995, nei quali la gobba va a giocare in giro per l’Italia, lamentandosi per i costi insostenibili di affitto del Delle Alpi.
In molti videro, nella minaccia di andarsene altrove, un ricatto al Comune, un modo per fare pressione per ottenere la cessione del costosissimo stadio (più diritti di superficie) ad un prezzo conveniente.<>Molto più che conveniente.
Ehi, però, un momento!
A Torino non gioca anche il Toro?
Non gioca nello stesso stadio?
Già, però il Toro è poverino, malato… che cosa può pretendere? E’ il parente povero e martoriato. Vogliamo mica fare la voce grossa?
Guardiamo in casa nostra che abbiamo cose più importanti da fare, non facciamo gli invidiosi, i vittimismi, in fondo chi se ne frega?
Purtroppo il nostro punto di vista è talmente ristretto che ci si preoccupa maggiormente della forma di un giocatore piuttosto che di strane voci astratte.
E bonariamente crediamo che un problema edilizio non possa avere a che fare con una squadra di calcio.
E invece c’entra. C’entra eccome.
Non ci rendiamo conto della sua dimensione ma c’entra.
Niente voce grossa dunque
A Torino ce n’è già un a.
E poi noi siamo alla canna del gas.
Così in quei giorni sì gioca il destino della nostra storia, le cui conseguenze si ripercuotono ancora oggi.
Ah… dimenticavo un particolare, importante.
Dopo i nostri trascorsi, Luciano Moggi fa la sua comparsa nella società bianconera.
Che vince subito lo scudetto.
Uomini abili ai posti giusti. Chapeau.

Le fortune di Calleri svaniscono alla svelta ed il colpo del secondo calciomercato pirotecnico non riesce.
Si diceva che Madama si fosse incazzata per i due derby persi l’anno precedente, e che volesse fargliela pagare. Che questi non fossero i patti. Ipotesi ovviamente…
1995-1996, il Toro precipita nuovamente in B con Doardo – Biato – Caniato, una stagione grigia, come grigia e anonima sarà quella seguente, con Calleri contestato ed il Toro che affonderà nell’anonimato de l centro classifica della serie cadetta.
L’anno di Sandreani, per intenderci, di Lombardini, Minaudo, Cammarata, Rocco, Santarelli, Nunziata, Ipoua, Cevoli e Fiorin.
Calleri si disinteressa della squadra (presentata in Umbria, anziché a Torino), fino ad avviare trattative per la cessione.

Mille voci si alternano in questo corridoio.
Alcune ridono, altre sbraitano.
Solo una cosa non cambia. Ogni notte sono sempre più vicino alla svolta di questo corridoio, nonostante i miei sforzi.
Lo so, ci sono già stato… e lentamente mi sembra di ricordare qualcosa.
La mia cella, la mia personalissima cella. Quanto tempo fa è stato? Quando ne sono uscito?
Ricordo… Non ero solo. C’era un uomo con me.
Un giorno si aprì una breccia nel muro, la cella andò in pezzi e trovai la forza di uscire.
“Non tornare più! Non vog lio più che tu torni qui… promettimelo!”, mi disse.
Lui sarebbe rimasto lì. Qualcuno, presto o tardi avrebbe ricostruito le mura, disse.
Non mi ricordo chi fosse e perché restò lì.
Tutto è confuso.

Nessuno sa cosa sia successo esattamente con Calleri.
Si diceva e si pensava che avrebbe consegnato il Toro a personaggi in qualche modo controllabili, il suo compito era finito, richieste, ma la faccenda stadi era in piedi più che mai, anche se il Toro, volutamente alla canna del gas, certo non poteva avvallare richieste.
Non solo, all’orizzonte si profila l’idea nuovi investimenti e nuove ribalte per la città.
Invece Calleri, forse indispettito, cede il Toro a tre emeriti sconosciuti, nella primavera del 1997.
Non sono di Torino, arrivano da Genova.
Sta per cominciare la breve ma tormentata stagione Vidulich .
Più o meno nello stesso periodo, aprile 1997, il Filadelfia, passato alla Fondazione di Novelli, viene raso al suolo nell’indifferenza generale.
Al suo posto sorgerà un nuovo impianto, più moderno e sicuro, un gioiello all’avanguardia.
Si dice anche che con un po’ di fortuna potrebbe essere inaugurato in occasione del cinquantenario della sciagura di Superga, nel 1999.
Fortuna… averne.
In pochi, in pochissimi si oppongono fiutando un raggiro.
Quel giorno qualcuno piange su quel terreno.
Noi no. Forse abbiamo cominciato ad assumere lentamente del veleno che ci annebbia i riflessi.
Personalmente me ne renderò conto solo un anno più tardi, facendo una passeggiata nella zona.
Non me lo perdonerò mai.
Inoltre ancora non ci siamo resi conto di quanto possa valere un terreno in una zona strategica di Torino.
E continuiamo a pe nsare che gli interessi di speculazione edilizia non abbiano a che vedere con noi.
Lo scopriremo amaramente.

Nessuno ha mai capito bene e fino in fondo che progetti avessero Vidulich, Palazzetti, e Bodi, con l’appoggio di Regis Milano, nei giorni confusi di fine millennio.
Si presentano maluccio, alla conferenza di presentazione dicono che nell’operazione è coinvolta anche la Merril Lynch, un colosso finanziario.
Trascorriamo una serata tra stappi di spumante e sfottò ai gobbi.
Se la Merril Lynch è entrata nel Toro, allora i giorni bui sono finiti.
Il giorno seguente arriva la smentita diretta della banca.
E’ soltanto uno degli azionisti ad avere un conto presso di loro.
Ah.
Una sottile differenza.
Via lo spumante.
Per i tappi pazienza.

Dicevo, non si seppe mai chi fosse veramente il proprietario del Toro, anche se m olte strade sembravano portare a Regis Milano padre, che viveva all’estero causa problemi finanziari precedenti. Questo argomento fu poi causa di ampio dibattito quando si scatenò la campagna stampa contro di loro.
Poco importa adesso.
I soldi probabilmente erano pochi. Troppo pochi.

La sfortuna della gestione Vidulich si chiama 1997-1998.
I tre non sono riusciti a risollevare la baracca alla fine del 1996-1997 e puntano tutto sull’annata successiva, col ritorno di Lentini.
Ma Souness in panchina è un azzardo.
Quando subentra Reja, si sta volando verso la C.
Reja mette a posto la squadra, risale in classifica, si vola verso il quarto posto, grazie ai gol di Ferrante.
Ma il Toro è una società debole e lontana dalle sfere di potere, che mal digeriscono Vidulich e soci.
La promozione ci viene scippata come sappiamo.
D’accordo, in Italia si dovr ebbe indagare su ben altre cose, prima di questa.
Mettiamoci in coda, per un’indagine che non arriverà mai, su quel che accadde in quel finale di campionato, culminato nelle lacrime riarse di Reggio Emilia.

L’anno seguente Mondonico torna al Toro e si festeggia la promozione, nonostante la vergognosa sconfitta in casa nell’ultima partita contro la Reggina (ma si pensa che si volesse castigare il Pescara, che l’anno prima aveva calato le braghe in casa contro il Perugia).
Comincia la stagione 1999-2000, finalmente in Serie A.
In tarda primavera 1999, cominciano a comparire strani articoli di un acquirente rombante, tale Aghemo, dietro al quale si dice (a ridaje) si muova un magnate dell’industria.
Grandi scenari, spinti dalla carta stampata come non mai, universi di gloria ai quali noi prontamente ci inchiniamo.
E’ ora che arrivi Aghemo”, titolano sinistramente alcune lettere di tifosi inviate ai giornali, o, in maniera ancora più sinistra “Porto 15000 tifosi al Palasport” e l’immancabile cavallo di battaglia (o di Troia) “Ricostruiremo il Filadelfia”, con tanto di plastico.
Seguiamo passo passo.
I soldi al Toro di Vidulich sono finiti. Si parla di una valanga di debiti.
Ingenuamente la dirigenza rivelerà di puntare al quart’ultimo posto e questa dichiarazione, probabilmente sincera avrà un effetto boomerang su di loro.
La squadra arranca sul fondo della classifica, sembra riprendersi, ma poi incappa, tra Natale e l’anno nuovo in sei sconfitte consecutive, dopo una memorabile vittoria a Verona sotto la neve.
La campagna mediatica contro i genovesi è spaventosa, incessante, continua.
Ogni giorno ne viene fuori una nuova (il trucco è far sì che non siano sempre le stesse fonti a martellare) e la società paga tutti i suoi limiti di ingenuità e scarsa lungimiranza.
Vengono sguinzagliati inviati che ogni giorno, ogni giorno, ogni santo giorno sganciano la consueta bombetta.
Il Toro non paga gli stipendi”, “Il Toro non paga neanche le lavanderie!”,Vergogna” etc.
Al di là dell’inadeguatezza della gestione Vidulich, l’effetto è quello lento ed estenuante della goccia che alla fine scava un buco nella roccia, con il suo lento, inesorabile e infinito martellio.
Attenzione, non è una tattica usata soltanto in quello che dovrebbe essere sport.
Si comincia da una notizia isolata, poi da un’altra, si passa all’illazione e si fa scaturire il dubbio.
Dubbio che viene nutrito ogni giorno da nuove inesorabili gocce che cadono.
Se io per tutta la vita incontro persone che dicono che sono un pirla, alla fine penserò di esserlo veramente.
Se mi dicessero tutti – Hey, guarda che zoppichi! – io alla fine mi convincerei di zoppicare veramente, anche se cammino in modo perfetto.
La nuova cordata, dietro la quale si comincia a parlare dell’industriale di punta, molto legato alla Fiat, scalpita.
La squadra?
La squadra forse potrebbe anche salvarsi, in fondo è una questione di punti.
Ma l’ambiente collassa, dilaniato da polemiche e illazioni.

E’ il 2000, il Toro crollerà a cavallo dello sfortunato derby di ritorno e della gara interna contro il Verona.
Zoomiamo al contrario?
Dal particolare al generale?
La faccenda stadi è tutt’altro che risolta e all’orizzonte si movimenta, come un lontano miraggio, Torino 2006 , la città ha infatti ottenuto l’investitura ufficiale, il 10 giugno 1999.
Forse il Toro di Vidulich è davvero di troppo.

Ce l’avevo con gli Ultras all’epoca, pienamente travolto dalla mia superficialità e dal mio giudizio ristretto.
Non capivo perché una squadra che perde sei partite di fila non dovesse essere contestata.
Loro emisero un comunicato nel quale dicevano che “sarebbe stato meglio andarci cauti, piuttosto che fare largo a interessi poco chiari legati al Toro”.
Avevano ragione loro.
Ma il malumore aumentò a tal punto che l’inevitabile avvenne.
Ci misero uno stadio contro”, disse dopo qualche anno Mondonico.
Emiliano, Emiliano, non ho mai avuto una gran simpatia per te.
Ci mettesti del tuo con ‘ste cavolo di sostituzioni, ricordi Pinga col Milan? Ricordi la quasi rissa con Bonomi in Torino-Parma?
Eppure, anche se in modo sibillino, spesso dicevi sante verità.
Da interpretare, ma pur sempre verità.
Ci misero uno stadio contro.
Sono un fesso che si crede furbo.
Muovo, muovo le mani, credendo di essere io a muoverle.
Quando mi accorgerò dei fili dietro di me, ci sarà già l’uomo nero, e sarà troppo tardi per mandarlo via.

Ormai ho svoltato, sono nel corridoio di destra.
In fondo c’è quel debole lume.
Sono quasi stanco, rassegnato, ho urlato per tutto il tempo, ho supplicato, ho pianto.
E invece mille mani spingono me e altri verso le loro celle.
Mani furibonde, rabbiose, mani che non sanno.

Alla fine la roccia si spacca e il vulcanico Aghemo spazza via i genovesi, con il Toro ormai aggrappato alla disperazione, nea nche più alla sua forza.
In molti, me incluso, provano anche una velata simpatia per l’uomo, già Presidente del Moncalieri.
Più per la sua piemontesità, che per la fede calcistica dell’azionista di maggioranza, che si intuisce da subito essere nota stonata.
Avrà i suoi interessi per entrare nel calcio, ma in ballo c’è la ricostruzione del Fila, vogliamo mettere?
E poi, ci si dice, a questo punto qualsiasi cosa può essere meglio dei tre genovesi, no?
La vecchia dirigenza ha fallito si legge sulle lettere inviate dai tifosi ai giornali. Sono degli incapaci e incompetenti si legge in altre lettere, o nelle prime mail che parecchie persone inviano in società per rabbia.
Queste le frasi dell’epoca.
Dell’epoca.

Dopo un mesetto arriva la doccia fredda, scatenata dalla faccenda Pieroni, che viene ingaggiato come direttore sportivo e che si dice sia il modo per arrivare a Mazzone come allenatore.
Ma tra Bucci e Pieroni, la gente, in una fiammata di normalità, si schiera col Portiere.
Si scende in piazza.
Non sarà la prima volta, ci consumeremo le suole nel corso degli anni.
Aghemo si schiera contro Cimminelli e quest’ultimo lo silura.
Ormai il suo collaboratore ha esaurito il suo compito.

E’ storia che conosciamo, ormai.
Arriva Romero, personaggio legato ad un episodio terribile, uomo che in molti ricordano capo ufficio stampa di Gianni Agnelli.
La storia del Toro potrebbe fermarsi qua.
I fili sono stati tirati e ora non si può più tornare indietro.

Non c’è nulla di peggio di un veleno che ti viene dato giorno per giorno.
Se qualcuno entrasse nella nostra casa e decidesse di svuotarla, come reagireste?
Bè, la risposta è ovvia, vi gettereste addosso all’intruso e tentereste di prenderlo a calci per farlo uscire in fretta e furia.
Questo mi pare ovvio.
Invece proviamo ad immaginare se un giorno, tornando a casa scoprissimo che manca, che ne so una cornice. In molti probabilmente neanche se ne accorgerebbero.
Magari ci si metterebbe a cercarla per un po’, poi non ci si farebbe più caso, addebitando la scomparsa a una nostra mancanza.
E se il giorno dopo mancasse… un soprammobile? E poi qualcos’altro, tipo un libro? Si darebbe la colpa alla propria smemoratezza, archiviando il caso come curioso, cose di poco conto, in fondo.
Fino a non rendercene più conto, convincendoci di vivere in una casa maledetta e vivendo la spogliazione della casa stessa come inevitabile.
In fondo ci sono ancora i muri.
La casa, almeno la casa. Sempre più triste, sempre più anonima.
Un giorno ti accorgi che la tua casa non ha più mura, ma sbarre.
E tu non hai più la forza di uscirne.
In fondo quella è casa tua, anche se ha le sbarre.
Quanto era bella quando c’era tutto. Quanta nostalgia, quanti rimpianti!
Un veleno fa molto meno male se preso a piccole dosi.
Ci si fa l’abitudine, si passa le giornate a letto fino a che ci si abitua a quel sapore sinistro di morte.
Si tengono gli occhi bassi, fino a rialzarli raramente, oltre le sbarre.
Sono nati i Prigionieri.
Quelli che hanno vissuto per anni in un corridoio scuro e dimenticato.

Di nuovo il sogno, raramente, mi lascia in pace.
- Sei sicuro che non c’entri il Toro? Ti conosco troppo bene, tu non me la conti giusta.
- Ma figurati, è questa dannata acidità…
Accend o una luce, vado a specchiare la mia faccia stravolta.
Ho 40 anni… non sono più un ragazzino e neanche un ragazzo mi passerà mai?
Mi farò mai furbo?

Non sono solo, lo so, ma faccio fatica a comprendere chi è con me e chi ci stia spingendo.
Cerco di trovare un appiglio ai muri, ma i mattoni sono unti, sporchi e scivolosi.
E il pavimento… non sto strisciando. Sto scivolando, e forse anche in discesa…
Non voglio vedere cosa c’è alla fine del corridoio, nella mia cella, non voglio.
Ma il lume sinistro è sempre più vicino, sempre più vicino.
Non voglio!

Una cronaca cronologica della vita dei Prigionieri non sarebbe leale.
Perché in quel periodo il corso degli anni si confonde, i Prigionieri quasi non se ne rendono conto.
Quasi tutti abbiamo perso i ricordi sequenziali, che invece abb iamo di tempi più felici.
Sarebbe più onesto, come un pittore pazzo che vede la luce a sprazzi, pennellare frammenti di ricordi devastanti.
Lampi di luce, attimi di colore spento, pioggia battente in una giornata senza luce, odore stantio, sospiri silenziosi.
Un gol di Del Piero contro il Parma e la dirigenza granata che esulta in tribuna a Lecce, i coglioni a Superga, Ferrante che tira un rigore contro il Siena e lo stadio semivuoto che lo fischia, una vetrata in frantumi la notte di un Toro-Milan, i lunghi viaggi verso Reggio Emilia alla ricerca del niente, un giorno di sole che sperammo essere eterno, trascorso a ritrovarci, a contarci e a camminare lungo i viali della nostra città, una bandana e nulla più, uno stadio colmo di 17 persone, mentre i tifosi del Messina fanno festa, le vecchie sciarpe, i vecchi vessilli stretti tra le mani, sfregati quasi come una lampada di Aladino, nell’assurda e ing enua speranza che da essi si possano sprigionare la magia e l’energia racchiuse in essi, il Toro al posto della zebra in un marchio odiato, i sorrisi di compatimento di colleghi o conoscenti, che dapprima ti fanno abbassare gli occhi, poi ti fanno sbuffare e infine ti insegnano a reagire, perso per perso.
Dio, cosa mi hai insegnato Toro? Cosa mi hai insegnato?
Perché mi hai insegnato anche ad odiare? Ad avere pensieri indicibili?
Era questo il destino? Era questo il destino, già da quel lontano giorno degli anni ’70, quando mio padre mi parlava entusiasta di una vittoria sul Milan dopo tanti anni?

Se ci fosse un suono che potesse descrivere le vite dei Prigionieri in quegli anni sarebbe un solo, unico, devastante suono.
Quello del silenzio.
Ma non quello pacifico dell’alta montagna, che ti ristora l’anima, no, non quello!
Il silenzio della solitudine , quello che ti fa pulsare i battiti del cuore nelle orecchie, sempre più forte, sempre più forte!
Dio mio, Dio mio, fammi uscire da questo incubo, Dio mio, Dio mio!!!
I Prigionieri…
Un disco senza musica, un canto senza voce, un pianto senza lacrime, una risata a labbra chiuse, un amore senza baci, un divertimento senza gioia, un Dio senza religione, capelli scompigliati senza vento, rabbia senza ira, una corsa da fermi, Torino senza il Toro.
Una cella aperta, nell’attesa che qualcuno ci venisse a tirare fuori, un muro dove segnare i giorni le settimane e gli anni.
Un passato troppo terribile da ricordare, quando invece meriterebbe di essere ricordato ogni giorno.

Nel 2003, lo Stadio Delle Alpi, viene ceduto alla gobba per 24 milioni di euro (!!!), assieme ai diritti di superficie per 99 anni.
Il Toro si è opposto alla svendita? Ha recla mato qualcosa? Ma non scherziamo! Ma non proviamoci neppure!
A noi spetterà la proprietà dello Stadio Comunale, previo accollarsi le spese di ristrutturazione per le Olimpiadi del 2006.
Che si accollerà quindi il Torino Calcio.
Un buon affare per l’azionista, si dice.
Cemento, ancora cemento.
Già allora si comincia a sentir dire che il Toro non possiederà mai quello stadio.
Che la società (allo sbando e ultima in classifica nel 2003) non sopravviverà.
E non per questioni di destino.
La ricostruzione del Fila, alla quale in pochi avevano creduto, si è fermata da tempo in Consiglio Comunale sotto il peso di provvidenziali eccezioni.
Fine del cavallo di Troia.
Si specula sui terreni.
Si farà un supermercato, anzi no, solo due palazzi.
Qualche eroico tifoso si mobilita in una strenua ed estrema difesa di quel suolo sacro.
Nel 2003 ormai nessuno ha più dubbi.
I prigionieri sono già rassegnati. Il Toro chiude ultimo un campionato vergognoso.
Si cerca un compratore, si marcia in 50000, si crede a Basharin, poi a Mongarli, si passano le sere e le notti sul forum.
Nella nostra cella.

Gennaio 2005.
Nessuno parla più del Toro.
La Stampa, lo stesso giornale che oggi ci dedica così tante attenzioni, raramente ci riserva qualche trafiletto.
Il Toro? Non c’è più
I prigionieri? Chiusi in cella.
Quando si aprirà un inatteso squarcio nella cella, qualche mese dopo, in molti non avranno la forza di uscirne.

Cimminelli ride.
Di tutto si può dire su quell’uomo meno che non avesse il pelo sullo stomaco.
Circolavano tante storie su di lui.
Per tutto il tempo della sua permanenza a quello che restava del Toro, si fece un baffo di noi, delle nostre passioni, delle nostre suppliche, delle nostre marce.
Non gliene fregò mai nulla. Niente di niente, neanche per sbaglio.
Di lui, oltre al mio parere personale, resterà sempre il ricordo di un uomo che ride beffardo.

Attimi di anni dispersi nel dimenticatoio, tra un incubo e l’altro.
Guardi la tua città di notte e ti accorgi che ti stai sforzando di guardarla tramite le tue lenti a contatto anni ’70 o tutt’ al più ’80.
Credi che le ombre siano quelle delle persone che conoscevi.
Ma sai che forse la gente che amavi non c’è più, la città non sarà mai più la stessa.
E’ inutile fingere e continuare a mentire a se stessi.
Se mi tolgo le lenti a contatto, lo spettacolo è desolante e quasi mi sembra di rivedere tanti fili che forse agita no nuovamente gesti e pensieri.
Da qualche parte ho letto che una persona che viene tenuta a lungo segregata in una cella, perde lentamente la propria volontà e se per caso il suo aguzzino lasciasse la porta aperta, il prigioniero non avrebbe neanche più la forza di uscire, abituato com’è al suo lento spegnersi.
E se ancora, qualcuno lo riportasse alla luce e alla liberta, egli nel proprio inconscio bramerebbe e non vedrebbe l’ora di tornare a quelle quattro mura umide e maleodoranti, che sono ormai l’unico universo che conosce.

Il sogno mi avvolge nuovamente, in maniera inevitabile.
Sto urlando senza voce, con la rabbia della lucida disperazione.
Sono arrivato davanti alla cella, avvolto da brividi e da sensazioni di deja-vù.
C’è un uomo all’interno.
E’ lo stesso che mi disse “Non tornare più”. Mi gu arda e sorride di una beffarda e sarcastica amarezza.
Sono io stesso, è la mia immagine di qualche anno fa.
La cella e le mura umide.
Un luogo senza sbarre, dove morire lentamente, dimenticato.
La nostra casa tanto desiderata, alla quale ci siamo abituati.

A meno che…
A meno che la vista della cella, di com’era, della mia immagine disfatta di qualche anno fa, non mi faccia sussultare.
E non mi faccia trovare la forza di essere più forte di chi mi sta spingendo.
La forza di zoomare dal particolare al generale, di capire quali interessi e avvenimenti futuri possano andare oltre il pallone che rotola.
E di oppormi.
Un sussulto, un’ultima volta.
Devo trovare la forza.

MAURO SAGLIETTI

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2 commenti:

  1. grazie ragazzi x aver pubblicato su mia richiesta quest'articolo, su cui bisogna riflettere molto, per capire che dobbiamo difendere la nostra identità e, se possibile farlo uniti, dato che non abbiamo nessuno a proteggerci


    Tex Willer

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  2. Concordo appieno.
    UNITI PIU' ORA PIU' CHE MAI. FORZA TORO

    Marco

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