Nella seconda metà degli anni cinquanta abitavo in quella
che allora era estrema periferia: Corso Montecucco.
Poche case e orti e campi di grano dove d’estate
fiorivano i papaveri. Lì, di fronte alla fabbrica della Viberti, dopo l’incrocio
con via Bardonecchia, c’erano ancora i segni dei bombardamenti avvenuti
sulla nostra città durante la guerra. Fra i più evidenti c’erano i resti
di una grande fabbrica che probabilmente produceva componenti di armi, ma non
ho mai saputo con esattezza quali, circondata da macerie, sterpaglie e cespugli
e su due lati, quello verso il corso e quello lungo la via Bardonecchia, da un
muro di mattoni a vista con i cocci di vetro impastati nel cemento in cima per
dissuadere gli intrusi. Lì si svolgevano i nostri pomeriggi dopo la scuola giocando
con le figurine e il “palicia” (in gergo la pietra piatta che si
lanciava per colpire e fare proprie le “figu”) o ai ragazzi della
via Pal dividendoci in bande in difesa o all’assalto della fabbrica in
rovina.
Ma la domenica pomeriggio c’era la partita. Ed era
sempre Toro contro Juve. Niente Milan, Inter, Barcellona, Manchester: sempre e
solo Toro –Juve. Nel toro con me c’erano i fratelli Tozzi, Franco e
Umberto che diventeranno famosi nel mondo della musica. Uno dei più grandi, un
certo Luigi, aveva escogitato un sistema pratico: con fogli da disegno ma anche
carta da pane, aveva disegnato scudetti del Toro e della Juve che venivano
appuntati sul petto con spilli. Il campo era a L con una porta sul lato Montecucco
ed una sul lato Bardonecchia. All’incrocio c’era uno del Toro ed
uno della Juve (questione di correttezza) che avvisavano i difensori quando il
gioco che si svolgeva dietro la curva si dirigeva dalla loro parte. “il
bubalo” era il grido d’allarme. Inutile ricordare che il bubalo
era, sempre nel gergo che usavamo noi ragazzi, il pallone. A partita in corso,
chiunque arrivasse si appuntava lo scudetto al petto ed entrava per diritto
nella squadra del cuore. Siccome per regola non c’erano limiti per cui
si giocava a volte anche dodici o tredici contro sei o sette, sempre gli
scudetti del Toro finivano e quelli della Juve no.
Noi eravamo più numerosi e
non solo in quell’angolo della città ma anche in parrocchia o ai
salesiani dietro Corso Racconigi o qualche anno dopo sul campo del Taurus
dietro il Liceo Cavour. Questi sono i ricordi che sempre mi evoca il coro da
stadio “Torino è stata e resterà Granata”. Almeno nei cuori dei
ragazzi di quella generazione.
Fulvio
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